Alcuni testimoni significativi dell'Azione Cattolica a livello nazionale e diocesano
Nella nostra diocesi l'azione cattolica ha dato figure sicuramente significative,che meritano di essere conosciute e ricordate per la dedizione con cui hanno operato nel concreto delle situazioni, ma fra tutte non si può non dare il massimo rilievo a mons. Giacomo Sichirollo che nella nostra diocesi dell'azione cattolica fu il promotore. Il nome di Giacomo Sichirollo a molti,se proprio non a tutti, è ben noto, non foss'altro perché a Rovigo una via porta il suo nome, a lui è dedicato un monumento accanto alla porta di quello che fino al 1966 fu il Seminario diocesano, e perché a lui sono state intitolate associazioni e istituzioni;ma avere familiarità con il nome evidentemente non significa conoscere la persona che lo ha portato e avere consapevolezza delle ragioni che ne hanno determinato la positiva notorietà, e dunque di saper intendere in cosa consista la sua esemplarità. Per quanto riguarda Sichirollo, la sua vita - come le date suggeriscono immediatamente - si svolge in un periodo cruciale per la Chiesa che, con l'affermarsi in Europa del liberalismo e la conseguente nascita del socialismo e delle sue diverse ramificazioni, vive una fase di trapasso culturale profondo. In Italia, in particolare, la situazione viene inasprita dalla realizzazione dell'unità nazionale condotta con prevalente spirito anticlericale, se non addirittura antireligioso, che determinò la contrapposizione fra il mondo cattolico (che riteneva di aver subito sopraffazioni) e il nuovo Stato (che voleva affermare la propria autonomia). I cattolici italiani furono, naturalmente, dalla parte del papa (la nascita della Società della Gioventù Cattolica Italiana - in sigla: SGCI - è appunto legata alle vicende del momento storico), ma all'interno di questa posizione di principio si manifestarono diverse correnti che, semplificando, possono distinguersi in due filoni: gli "intransigenti", rigorosamente (e spesso rigidamente, specie nel Veneto) obbedienti alle direttive dei papi, e quelli che furono definiti "cattolici liberali" che ritenevano non impossibile trovare un punto d'incontro con le novità emergenti. Sichirollo fu sempre, e senza discussioni, dalla parte del papa, ma questo non gli impedì di non sentirsi in piena sintonia con gli "intransigenti".In lui - annota Mario Quaranta - «c'è un'indubbia sensibilità verso il pensiero moderno, con cui egli dichiara che si deve fare i conti per riaffermare il valore del tomismo, di cui debbono essere evidenziate le potenzialità teoriche forse non sempre messe in luce dagli stessi cattolici: "Ma per essere seguaci convinti e fedeli di Aristotele e di S. Tommaso – afferma [nella sua opera pubblicata postuma, il Manuale delle dimostrazioni preambole della fede] - nulla s'ha da imparare dalla filosofia moderna? Chi credesse questo sarebbe in grande errore."». Gli "intransigenti" furono nelle condizioni di avere un ruolo significativo nella vita della Chiesa italiana di quegli anni, e ciò determinò un atteggiamento di sospetto nei confronti delle altre correnti, per cui anche persone di grande levatura morale e intellettuale come il filosofo Antonio Rosmini (1797-1854) poterono essere oggetto di ostracismo. Noi oggi rileggiamo la storia con una mentalità diversa: ma noi viviamo in una Chiesa che ha avuto il Concilio Vaticano Il, in una Chiesa che ha riconosciuto l'esemplarità del Rosmini dichiarandolo beato. La Chiesa cammina anch'essa con le gambe degli uomini, e quindi non meraviglia che la sua storia presenti aspetti problematici: la Chiesa ha fra i suoi c6mpiti di custodire la Parola di Dio e di farla conoscere alle genti, ma i modi di attuazione di tale impegno sono affidati alla responsabilità dei cristiani. Ebbene: la figura di Sichirollo regge ad una lettura fatta con gli occhi della nostra epoca?
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La biografia di Giacomo Sichirollo non ha nulla di straordinario: la sua vita trascorse nelle riservate stanze del Seminario diocesano dove fu insegnante e studioso, e da
dove si prodigò per i giovani e per tutti i diseredati della società. Sichirollo nasce il 17 aprile 1839 ad Arquà (che diventerà Arquà Polesine nel 1868), ed è il quinto figlio di Andrea, muratore, e di Maria Giro. A nove anni viene mandato a studiare come esterno nel Seminario diocesano; a 16 anni avverte la vocazione alla vita religiosa ed entra nel convento francescano di Bassano come novizio; ma la salute non sembra sorreggerlo a sufficienza per condurre la vita conventuale, per cui dopo alcuni mesi viene dimesso. Rientra nel Seminario di Rovigo per completare gli studi - nei quali ottiene risultati più che soddisfacenti - e per dedicarsi al sacerdozio. Fra le varie discipline mostra un vivo interesse per la filosofia: dal 1844 a Rovigo (come in molti altri Seminari della penisola) si insegnava la filosofia di Antonio Rosmini, e il giovane Giacomo ne rimane favorevolmente colpito; ma nel 1859 il vescovo Camillo Benzon, da poco entrato in diocesi, esige che la filosofia di Rosmini sia accantonata per esporre, invece, quella di S. Tommaso d'Aquino. A 22 anni, poco prima di ricevere l'ordinazione sacerdotale da parte del vescovo diocesano (20 settembre 1862), Sichirollo viene incaricato dell'insegnamento nel Seminario, dove copre le cattedre di Lettere, di Filosofia, di Scienze fisiche e di Teologia. L'insegnamento, inteso come responsabilità della persona nella formazione dei più giovani (ma anche degli adulti), rimarrà - direttamente o indirettamente - il suo impegno principale per tutta la vita. Quanto alla filosofia, di fronte alle indicazioni del vescovo Sichirollo - come confesserà più avanti – tergiversa nel senso che espone i contenuti delle diverse teorie senza prendere posizione a favore dell'una o dell'altra concezione. Solo più avanti si convincerà ad accettare in pieno la filosofia di S. Tommaso, e nel 1887 pubblicherà La mia conversione dal Rosmini a S. Tommaso, suscitando vivaci polemiche fra i rosminiani e i neo-tomisti (cioè i nuovi sostenitori della filosofia di S. Tommaso, che avevano l'approvazione di Leone XIII). Ma non erano solo le questioni filosofiche che agitavano gli animi in quel periodo. Nel luglio 1866 il Polesine, con tutto il Veneto viene annesso al Regno d'Italia di Vittorio Emanuele Il di Savoia, segnando il successo dei movimenti liberali e radicali; una decina di mesi dopo il governo italiano che deve riequilibrare il bilancio dello Stato dopo le guerre compiute - emana una legge che sopprime la gran parte degli enti ecclesiastici mettendone all'asta le proprietà, ma anche declassa il Seminario diocesano da scuola pubblica, come era sotto il governo austriaco, a scuola privata: non era dunque, solo una necessità di carattere finanziario a guidare la politica sabauda, ma vi era presente anche una chiara posizione anticlericale. Tale mentalità emergeva anche nel Polesine, provincia che nel Veneto prevalentemente cattolico si segnalava per una tendenza poco favorevole alla religione, ed è indicativo che, poco dopo il raggiungimento dell'unità nazionale, nel 1868 Cesare Parenzo riuscisse ad istituire a Rovigo una loggia massonica intitolandola ad Enrico Cairoli: in sostanza, anche dalla maggior parte della classe dirigente polesana emergeva una mentalità anticlericale. Non sembra casuale che poco dopo, nel settembre 1869, il giovane don Sichirollo, affiancandosi a mons. Giuseppe Beltrame che reggeva la parrocchia rodigina dei Ss.Francesco e Giustina. riunisse i suoi allievi in un sodalizio. Il Circolo Giovanile "S. Francesco d'Assisi": i due sacerdoti coglievano l'indicazione che veniva da Bologna dove nel giugno 1867 Mario Fani e Giovanni Acquaderni avevano lanciato l'appello ai giovani cattolici per costituire la Società della Gioventù Cattolica Italiana (SGCI). che fu effettivamente costituita nel gennaio 1868 e approvata dal papa Pio IX il 2 maggio di quello stesso anno. Il 4 marzo 1870 il Circolo "S. Francesco" di Rovigo. il primo istituito nella diocesi, veniva aggregato alla SGCI, risultando il 15° d'Italia. Dopo che i bersaglieri italiani entrarono in Roma per la breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870 il Circolo "S. Francesco" non mancherà di esprimere la propria fedeltà a Pio IX. Anche più avanti, nel 1883, Sichirollo fu attento alla situazioni dei "suoi" giovani: ormai molti frequentavano l'Università a Padova, e allora li fece aggregare a studenti padovani e fece nascere l'Associazione Cattolica Universitaria "S. Tommaso d'Aquino", approvata dal vescovo di quella diocesi, mons. Giuseppe Callegari, e per la quale redasse lo statuto. Se non proprio la prima - come taluno avrebbe affermato - questa di Padova fu certamente una delle prime associazioni universitarie cattoliche: da esse nel 1896 nascerà la Federazione degli Universitari Cattolici Italiani (Fuci). Malgrado l'attenzione alla realtà sociale e specialmente giovanile. non sembra che Sichirollo si lasci molto coinvolgere da quanto si va elaborando all'interno della SGCI: non partecipa al Congresso di Venezia del 1874, né manifesta opinioni sulla fondazione dell'Opera dei Congressi nel 1875. Silvio Tramontin sottolinea che non sono note le ragioni di tale distacco. ma ritiene di poterlo attribuire anche all'atteggiamento rigidamente "intransigente" assunto dalla nuova organizzazione che nel Veneto era guidata da Giovanni Battista Paganuzzi, mentre Sichirollo «era di animo aperto e conciliante quando non venissero messe in discussione le verità della fede». Comunque la situazione sociale e culturale del Polesine fa registrare un sostanziale disinteresse della popolazione nei confronti della religione, e il senso di frustrazione del clero che non riesce ad incidere sulla mentalità della gente: sopravvivono alcune organizzazioni devozionali, ma le nuove proposte rimangono lettera morta, sebbene i vescovi premano perché anche in diocesi di Adria si istituiscano le opere previste dall'organizzazione dei laici cattolici. Per altro, va segnalato che anche la preparazione del clero risultava insufficiente rispetto alle esigenze del momento storico: basti dire che l'alluvione dell'Adige del 1882 fu presentata dal vescovo diocesano come «una punizione divina in risposta alle inondazioni dei peccati». Il peso delle condizioni di vita della gran parte della popolazione rurale polesana esplode nel 1884, quando nei campi scoppia lo sciopero al grido de "La boje!". Sichirollo si rende conto che la Chiesa deve affrontare una realtà alla quale è impreparata, e nel 1882 istituisce' in Seminario la cattedra di Economia Sociale e di Agricoltura; e quando, nel settembre 1891, al Congresso cattolico di Vicenza il veneziano don Luigi Ce rutti propone l'istituzione delle Casse Rurali. Sichirollo è pronto a sostenere l'iniziativa anche per il Polesine: la prima di queste banche particolari in diocesi di Adria sorge a Molinella di Lendinara nel giugno 1893; tre anni dopo le Casse saranno 39. alla fine del secolo 42. Nel 1895 si costituì a Lendinara la Federazione Diocesana delle Casse Rurali che l'anno successivo ebbe la sede trasferita a Rovigo con la nomina di mons. Sichirollo a presidente onorario; nel 1901 nacque la Banca Cattolica del Polesine per dare maggior forza alle Casse Rurali, e Sichirollo entrò a far parte del collegio dei probiviri. L'impegno di Sichirollo nel campo sociale ebbe modo di rafforzarsi con la conoscenza - che diventò presto fraterna amicizia - di Giuseppe Toniolo. Il sociologo di Treviso aveva avuto modo di apprezzare il sacerdote polesano quando lesse il Compendio della storia d'Italia nel Medioevo che Sichirollo aveva pubblicato a Padova nel 1886, e ne stilò una recensione lusinghiera. I due si conobbero personalmente nel vescovado di Padova alla fine del 1889, quando, presente il vescovo mons. Callegari, vi convennero illustri studiosi per dar vita all'Unione Cattolica per gli Studii Sociali. Il problema che si intendeva affrontare era costituito dall'interpretazione positivista della realtà sociale, che, fra l'altro, negava la possibilità del libero arbitrio dell'essere umano. Su questo tèma Sichirollo fornirà una memoria al Congresso di quell'Unione, che si tenne a Genova nel 1892, intitolandola Il positivismo e la Scolastica nella teoria del libero arbitrio. Gli studi sociali trovarono, nel mondo cattolico, un forte impulso dalla pubblicazione dell'enciclica "Rerum Novarum" di Leone XIII (15 maggio 1891); questo papa già dieci anni prima, con l'enciclica "Diuturnum illud' aveva ammesso che anche nella Chiesa si potesse parlare di "democrazia" avvertendo, però, che doveva essere intesa non come governo di popolo ma solo come sollecita attenzione della Chiesa nei confronti dei ceti sociali meno provveduti. La prudenza si rendeva necessaria in considerazione sia della realtà sociale e culturale della popolazione, sia della possibilità che anche nell'ambito della Chiesa si manifestassero inopportune "fughe in avanti". Ma nel Congresso cattolico di Milano del 1897 cominciò ad emergere la posizione di don Romolo Murri, che vedeva l'urgenza di un impegno del mondo cattolico anche in campo politico (mentre era ancora in vigore il "non expedit, il "non conviene", dichiarato fin dal 1868 dalla Sacra Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari circa questo aspetto della questione sui rapporti Stato-Chiesa). La posizione di don Murri fu duramente combattuta dagli "intransigenti", creando un conflitto duro che si protrasse per alcuni anni, fino a che Pio X, nel 1905, soppresse l'Opera dei Congressi per trasformare l'organizzazione dei cattolici nella società italiana in tre "Unioni" specializzate rispettivamente nell'apostolato, nell'appoggio alla presenza dei cattolici negli enti locali, e nelle questioni economicosociali. Sichirollo comprendeva che l'atteggiamento di don Murri aveva motivi per affascinare i giovani: per questo vegliò attentamente affinché i giovani assumessero un atteggiamento criticamente responsabile di fronte a certe sollecitazioni che potevano risultare generose ma anche, al momento, inopportune. Appunto negli anni di passaggio fra i due secoli Sichirollo tenne conferenze - presto pubblicate - sul concetto cristiano che allora di doveva avere della democrazia, e sul significato della "Rerum Novarum". Comunque, per sostenere la presenza dei cattolici nel dibattito sociale del tempo, Sichirollo fu uno dei promotori della fondazione di un settimanale specifico della diocesi di Adria, "La Settimana", che cominciò ad uscire il6 gennaio 1901, ed al quale collaborò a lungo. Pochi giorni dopo, il 18 gennaio 1901, Leone XIII pubblicava l'enciclica "Graves de communi re" con la quale autorizzava l'uso del termine "democrazia cristiana" purché «smesso ogni senso politico» non significhi altro che «una benefica azione cristiana a favore del popolo». Sulla scia di questa indicazione nel febbraio 1902 Sichirollo diede vita a Rovigo al "Circolo democratico cristiano di studi sociali", una scuola per preparare dirigenti laici in grado di far fronte alle esigenze della situazioni del tempo. Sorgevano in molte diocesi - all'interno dell'Opera dei Congressi come voleva il papa, ma suscitando molte resistenze da parte degli "intransigenti" - gruppi giovanili che assumevano il nome di "democrazia cristiana". Nell'aprile 1904 si tenne a Rovigo il primo Convegno regionale democratico cristiano del Veneto che fu guidato da due giovani allievi . di Sichirollo, Umberto Merlin e ltalico Corradino Cappellotto; vi parteciparono anche alcuni seguaci di don Murri, ma la presenza autorevole di Sichirollo poté impedire che si verificassero disordini. Tuttavia all'interno dell'Opera dei Congressi i conflitti fra "intransigenti" e "democratici cristiani" giunsero al punto che in luglio Pio X decise di far cessare l'Opera e sostituirla con le Unioni che venivano sottoposte, nelle diocesi, al diretto controllo dei vescovi. L'azione equilibratrice di Sichirollo si manifestò anc6ra nell'ottobre 1905, quando a Rovigo si tenne il terzo Convegno delle associazioni giovanili della diocesi: questo si svolse in piena serenità e si concluse con l'invio a Pio X di un ordine del giorno in cui si sottolineava l'errore di non accogliere le indicazioni che venivano dal papa; ordine del giorno a cui il pontefice rispose elogiando lo spirito delle associazioni giovanili della diocesi di Adria. L'impegno nel campo sociale portò Sichirollo, per coerenza, ad accettare (sebbene reduce da una malattia durata alcuni mesi che lo aveva fortemente indebolito) anche di candidarsi alle elezioni provinciali (il non expedit valeva 5010 per le elezioni politiche) nel 1900, inserendosi in una lista di "moderati", e venne eletto; venne rieletto nel 1902, ma poca fortuna ebbe invece nel 1903, nelle elezioni comunali, quando i liberali non consentirono l'alleanza con i "clericali", per cui dovette presentarsi in una lista di soli cattolici e, pur essendo il più votato della lista, raccolse appena 84 suffragi: ciò che ben esprime qual era la posizione dei cattolici nell'opinione pubblica rodigina. Nel 1907, però, verrà rieletto nell'Amministrazione provinciale. Il 18 maggio 1911 Giacomo Sichirollo morì nel Seminario di Rovigo, assistito dall'amico don Luigi Guanella.
Da molteplici testimonianze orali e scritte, la sua appare una personalità ricca, rorompente e generosa,maturata dentro la Gioventù Femminile di Azione Cattolica, alla quale l’avevano indirizzata fin da piccola i genitori. Nell’ Associazione, attraverso l’impegno costante di formazione e di amore agli altri, e nel servizio ecclesiale, iniziato assai precocemente e continuato fino alla fine, passando da una sezione all’altra con gioiosa dedizione, trovò la sua vocazione di apostolato, diventando, quasi con spontaneità e naturalezza, maestra di vita ( secondo la testimonianza del suo Parroco, padre Basilio, v. biogr. Pag.64). Fu dapprima delegata Aspiranti nella sua parrocchia e poi delle Giovanissime, sezione nata nel dopoguerra per dare una formazione più adeguata alle adolescenti. A questa sezione, originata da una felice intuizione pedagogica, in fase ancora sperimentale Agnese si dedicò appassionatamente, forte anche della fiducia che le esprimevano
le dirigenti nazionali e la Presidente diocesana che la incaricò di fondare la “Sezione Giò” nella Diocesi. La sua disponibilità non si limitava a quanto richiesto dall’impresa affidatale, ma giungeva a seguirle quanto più possibile, personalmente, scrivendo anche molte lettere a Giovanissime e delegate per incoraggiare, sostenere e illuminare. Introdusse anche le Scuole di apostolato nelle vicarie. Segnalata alla Delegazione regionale della G.F. partecipò ad un corso regionale che si rivelò importante per il suo cammino vocazionale. In quell’ occasione fece anche l’importante esperienza degli Esercizi spirituali. Fu invitata a Roma a frequentare il corso nazionale di Formazione. Partecipò ad un primo corso ad Assisi e ad un secondo a La Verna, dove si rafforzò la sua impronta francescana. Ricevette, al termine del secondo corso, il crocifisso di Propagandista”,
considerato non come una promozione, ma come un mandato missionario. Grande fu la sua gioia e questo orientò più chiaramente la sua chiamata alla consacrazione
nel mondo. Visitò numerose parrocchie e diocesi in varie parti d’Italia per convegni o settimane di formazione, senza essere ostacolata dai familiari. Poi sopravvenne a 22 anni la malattia grave, inesorabile, piuttosto difficile da individuare e ancor più da curare. Qualche esaurimento al principio, con brevi intervalli di ripresa e, in seguito, Agnese si trovò progressivamente consegnata alla malattia. Questa le fece interrompere gli studi universitari, in uno stadio ormai avanzato. Molte furono le prove che si trovò ad affrontare in questo periodo in mezzo a vicissitudini ambientali e lutti familiari. Il Papa Pio XII, durante la sua malattia, le usò tre particolari attenzioni: esortandola, in occasione di una udienza all’ A.C. Femminile, a curarsi e ad avere coraggio; procurandole, su segnalazione di una dirigente, la streptomicina per le cure necessarie e donandole un rosario col quale lui stesso aveva pregato. Questi gesti la commossero profondamente. Per curarsi dovette ricoverarsi al Policlinico Umberto l° a Roma, nel 1952, dove fu sottoposta ad esami vari. Poi, dopo una sosta ad Adria e la ripresa inaspettata della malattia all’inizio del 1953, ritornò di nuovo a Roma nella Clinica di Via Nomentana presso le Suore Serve di Maria. “Sorella Morte” la trovò preparata, pur nella grande sofferenza e accettò pienamente la volontà di Dio.
NOTE BIOGRAFICHE E TESTIMONIANZE
Agnese è nata il 14 aprile 1929 in un piccolo paese, in riva al Po, S. Maria in Punta, (in provincia di Rovigo), tra gente forte ed essenziale, da genitori di fede cristiana e di buona cultura: il padre Anacleto Simoni era avvocato e la madre EIsa Maritano, maestra elementare. Agnese era la prima di quattro fratelli, a cui era molto legata come sorella maggiore. La famiglia è stata la sua prima grande scuola e il suo grande porto. Condusse una infanzia semplice e serena in questo angolo di mondo modesto, ma suggestivo, dal punto di vista paesaggistico, che portò sempre nel cuore. A 1O anni Agnese, con la famiglia, si trasferisce nella vicina cittadina di Adria in un ambiente più evoluto e stimolante, e culturalmente più elevato, con antiche tradizioni storiche, culturali ed ecclesiali. Qui frequentò il ginnasio e il liceo classico, preparandosi con regolarità agli studi universitari, scegliendo dapprima la facoltà di Medicina, abbandonata, poi, a causa della grave perdita del fratello Lino, avvenuta nel 1948, per un incidente che provocò in lei una vera crisi; decise allora di passare agli studi di Lettere alla Facoltà di Padova. Ad Adria visse il tempo tra la fine della guerra e la grande alluvione (1951), due catastrofi che lasciarono il segno a lungo in un territorio già depresso come il Polesine. C’era anche povertà e Agnese sapeva soccorrere e donare. C’era mancanza di mezzi di comunicazione e di trasporto, disagi da sopportare. Agnese sapeva superare lietamente i disagi. Fu profuga a Roma e ospite dell’ Azione Cattolica, in occasione dell’alluvione. Amava lo studio, era intelligente, volitiva alacre in tutto. Si sarebbe laureata se la malattia non fosse sopravvenuta ad impedirglielo, pur tuttavia affrontando qualche esame. Il più grande “esame”, la più dura prova che dovette affrontare fu però quella, in situazione di malattia sua propria grave, del lutto improvviso e imprevedibile della morte del padre, nel febbraio 1953, che la rattristò terribilmente, nella condivisione più acuta del dolore della famiglia e soprattutto della mamma. In un crescendo di avversità, si trovò a mettere in pratica quell’ abbandono alla volontà di Dio che in un suo scritto aveva espresso come un mettersi nelle “braccia del Buon Dio con una fiducia piena, totale e illimitata”. Agnese era eloquente e affascinante nel parlare, e scriveva anche molte lettere con facilità e spontaneità, esprimendo un vero dono di relazione, di comunicazione, di guida spirituale. Scriveva anche come corrispondente per “Squilli”, il giornale dell’Associazione, nelle pagine dedicate alle giovanissime, con stile personalissimo, raccontando in chiave di vita quotidiana la fede. Scriveva storie, parabole del vivere, con mano felice e anche con venatura poetica: pagine vive su temi di vita, di amicizia, di attesa del futuro da maturare. E scriveva anche di sé e del suo cammino dietro al Signore, confidenze che facevano tutt’uno con il suo impegno formativo. Dopo la morte del padre, tornata a Roma per l’ultima volta in condizioni di forte aggravamento, le erano accanto la mamma e la sorella Mariuccia, le amiche dell’ Azione Cattolica, e perfino le Giovanissime dell’ Associazione interna alla comunità presso la quale lei si trovava ricoverata. Al suo capezzale giunsero anche l’Assistente diocesano di Azione Cattolica Don Ferdinando Frison che tanto l’aveva accompagnata e apprezzata nell’attività diocesana e il suo Padre Parroco che celebrò l’Eucaristia nella sua stanza la mattina
stessa dell’ Ascensione in cui si concluse la sua vita. E’ facile pensare che la Mamma celeste sia venuta a prenderla per mano quando, nella sera, dopo il rosario e le litanie mariane guidate dalla sorella, consegnò se stessa in una preghiera silenziosa, e proprio Lei l’abbia condotta all’abbraccio del “Signore della sua vita”. Era il 14 maggio 1953. La sua città accolse trepida e commossa le spoglie di Agnese. Ha lasciato un ricordo indelebile nell’ Associazione e nella nostra chiesa locale.
Battista Soofiantini nasce a Somaglia, piccolo centro nelle vicinanze di Casalpusterlengo (Milano), il 28 gennaio 1878. Il papà Giovanni e la mamma Francesca Peviani avevano un mulino ma, come si usava allora, all’età di dodici anni venne avviato al lavoro, prima a Codogno e successivamente, a diciassette anni, a Milano.
Per voto, volle intraprendere un avventuroso pellegrinaggio, di circa ottocento chilometri, da Piacenza a Roma per incontrare il Papa. Dopo questa esperienza, al suo paese, tutti erano convinti che si sarebbe fatto frate; iniziò invece un’attività di sindacalista-propagandista cattolico cui non smise mai di dedicarsi. Lavorò nelle prime “leghe bianche” lombarde ed iniziò a propagandare la Fede cattolica con lezioni e conferenze, facendosi conoscere ed apprezzare anche a livello extraregionale. Venne infatti chiamato a svolgere quel ruolo in Friuli ed in Istria; nel 1908 giunse in Polesine a Rovigo, dove avviò il primo Ufficio Provinciale cattolico del Lavoro.
Dotato di notevoli capacità organizzative e di una cultura di fondo che lo distingueva, divenne presto una delle figure di rilievo della vita sociale, politica, cattolica del Polesine. Fu direttore de «La Settimana», il giornale della Diocesi e partecipò, con Umberto Merlin, Mons. Giacomo Sichirollo Carlo Belloni, Corradino Cappellotto e Carlo Cibotto, alle difficili vicende politiche e sociali del primo Novecento.
Dal 1916 si spostò a Badia Polesine, dove per incarico del Vescovo, guidò lo sviluppo dell’Istituto per orfani D.Caenazzo e F.Bronzin. Innumerevoli furono le attività amministrative, politiche e sociali che svolse anche nella città altopolesana, fino al 1950, anno della sua scomparsa.
CHI ERA STATO:
….Di Battista Soffiantini si può scrivere come propagandista cattolico, sindacalista, fondatore di Leghe Bianche e di Casse Rurali, di Cooperative, democristiano della prima ora e quindi politico, ma al tempo stesso scrittore (è stato un valente giornalista che collaborò con varie testate, di diverse città del nord), scrittore di libri, di commedie, di poesie, ma anche educatore e Segretario di Opere Pie, ed ancora uomo profondamente religioso e buon padre di famiglia, impegnato in molte attività per aiutare gli altri.
Alla sua scomparsa la stampa riportò:
«La Settimana Cattolica» - L’omaggio d’un amico
La rettitudine dei suoi intenti, l’abnegazione con la quale si sacrificò per la causa cattolica, la lealtà della sua condotta nessuno poté mettere in dubbio, ...
Io credo che l’opera compiuta dal cav. Soffiantini, in quel tempo, meriti di essere messa in speciale rilievo... Uno studio potrebbe, su quel periodo precedente immediatamente la prima guerra mondiale, dal 1910 al 1915, dare materia non inutile per la storia della nostra azione cattolica diocesana; e in questa storia il Soffiantini certamente si presenterebbe come figura di primo piano.
In quegli anni si impegnò nel movimento per la scuola cristiana e per l’organizzazione operaia, che per opera del Soffiantini, ebbe sprazzi di luce da precorrere i tempi. Mons. A. Marega.
«Il Gazzettino» - Assemblea delle A.C.L.I.
Il Presidente provinciale delle ACLI , comm. Carlo Cibotto, prima di iniziare il suo discorso previsto, ha voluto commemorare lo scomparso cittadino m.o Battista Soffiantini che è stato, egli ha detto, l’apostolo della associazione, con la sua collaborazione e con la sua intensa opera di persuasione. Infatti i Badiesi lo ricordano come l’uomo che saggiamente visse ed intensamente operò per il trionfo del bene nella martoriata umanità.
A cura di Giorgio Soffiantini
Nato ad Adria il 21 dicembre 1909, Carlo Chiarato fin da giovanissimo milita nelle fila dell’associazione dell’Azione Cattolica della parrocchia della Cattedrale dei santi Pietro e Paolo. La sua maturazione sociale avviene, dunque, all’interno dell’A.C., convincendosi della necessità che i cattolici debbano impegnarsi nella vita pubblica per portare la testimonianza del Vangelo in ogni settore della società. In questo senso sviluppa una sua opposizione al fascismo che vuole strumentalizzare la fede religiosa e reprimere le iniziative formative della Chiesa. Nel 1943 è impiegato al locale Consorzio Agrario: gli avvenimenti che segnano e seguono la caduta del fascismo (25 luglio: Mussolini è sfiduciato dal Gran Consiglio; 8 settembre: armistizio fra Italia e Alleati, mentre “la guerra continua”; 12 settembre: Mussolini è liberato dai tedeschi e, su pressione di Hitler, dà vita alla Repubblica Sociale Italiana) vedono Chiarato attivarsi, assieme ad altri antifascisti adriesi, per organizzare la resistenza. Il 20 ottobre 1943 Chiarato e il prof. Mariano Coletti, già identificati come antifascisti, vengono avvicinati da un personaggio che, sotto il (falso) nome di Ignazio Costa, si presenta come partigiano riparato al nord dall’Italia centrale, mostrandosi al corrente di iniziative di opposizione ai nazi-fascisti, e offrendosi per fornire ulteriori informazioni al fine di organizzare la resistenza. In realtà si tratta di un sicario che, d’accordo con il prefetto fascista di Rovigo, mira ad eliminare gli oppositori. Chiarato e Coletti non si nascondono il pericolo, ma decidono di dover rischiare: vanno all’appuntamento fissato per la sera del 22 ottobre presso il cimitero di Adria, e qui il sedicente Costa spara contro di loro diversi colpi di rivoltella: entrambi feriti, Chiarato mostra subito le condizioni più gravi, ma non vuole essere trasportato all’ospedale: chiede di essere condotto fra gli amici dell’Azione Cattolica, che stavano partecipando a un incontro spirituale, e solo più tardi, dopo aver ricevuto la Comunione, su insistenza del parroco viene portato all’ospedale dove muore avendo perdonato al suo assassino: «Perdono chi mi ha colpito e muoio volentieri offrendo la mia vita per la Chiesa e per la pace».
(Questo materiale verrà inserito all'interno della mostra virtuale "La Santità del quotidiano" creata dall'AC in vista dell'incontro nazionale del 4 maggio e sarà mostrata la mattina del 4 maggio durante l'animazione in Piazza S.Pietro)
Amate i vostri nemici, e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. VI, 44). Il breve tratto del Vangelo di Marco, ben si adatta alla vicenda che oggi andiamo ad evocare. Il cammino sinodale intrapreso lo scorso anno ci porta ad immergerci nella storia della nostra Chiesa particolare, alla ricerca delle sue radici più genuine “per riscoprire la sua identità e quindi il suo passato…, per rilevare qual è stato il suo ruolo nel nostro Polesine, per individuare quale può essere il suo contributo nella costruzione del futuro di questo territorio”. In questa luce si illuminano figure di grande valore come Carlo Chiarato che oggi cercheremo di approfondire. Morto ad Adria il 23 ottobre 1943 in seguito alle gravi ferite riportate in una imboscata, Chiarato si era formato nelle file dell’Azione Cattolica della cattedrale seguendo gli insegnamenti dell’Arciprete mons. Filippo Pozzato e dell’Assistente don Guido Stocco. In punto di morte volle proclamare la sua fedeltà a Cristo pronunciando parole di perdono per il suo aggressore e offrendo il suo sacrificio “per la Chiesa e per la Pace”.
Quadro di riferimento storico
Nel febbraio 1922 saliva al soglio di Pietro Pio XI. Egli definiva l’Azione Cattolica come “partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico” per la difesa dei principi religiosi e morali e per la cristianizzazione della società. Nello stesso anno, tra il 27 e il 28 ottobre, la grottesca “marcia su Roma” portava al potere il fascismo, negatore di fatto dei valori proclamati dal Pontefice. Per la cronaca, in quegli stessi giorni si svolgeva ad Adria con grande solennità il 3° Congresso Eucaristico diocesano. Sempre nel 1922, scrive il dott. Adriano Mazzetti1 “le associazioni del laicato cattolico polesano (furono) oggetto di violenti attacchi da parte del movimento fascista che si stava rapidamente sviluppando in Polesine. Nella primavera dello stesso anno a Rovigo (ma anche a Costa, Villanova, Ficarolo, Ariano Polesine) furono distrutte le sedi delle associazioni cattoliche…”. Il nascente movimento dunque non vedeva di buon occhio l’Azione Cattolica, considerata un concorrente pericoloso nei confronti del nuovo assetto istituzionale dello Stato. Una lettera emblematica che ho rintracciato presso l’Archivio di Stato di Rovigo, spiega assai bene questo stato di cose.
“In questa Provincia – scriveva al Ministero dell’Interno il 19 aprile 1928 il Prefetto di Rovigo – l’Azione Cattolica ha avuto il suo sviluppo secondo le direttive impartite dal Pontefice (Pio XI) ai Vescovi, ed a mezzo delle tre organizzazioni: Federazione Italiana Uomini Cattolici, Unione Femminile Cattolica Italiana e Società della Gioventù Cattolica Italiana, per ciascuna delle quali esiste in questa Provincia la rispettiva Federazione Diocesana...Risulta che la maggior cura da parte delle autorità e degli agenti ecclesiastici, viene riposta in pro dei circoli della gioventù cattolica, allo scopo di meglio svolgere il programma di educazione e di propaganda”. Dopo aver rilevato una forte accelerazione dell’attività organizzativa cattolica per far crescere gruppi e circoli in ogni parrocchia, il Prefetto assicurava il Ministero sulla stretta vigilanza posta in atto dai Podestà e dai Segretari Politici dei fasci, su eventuali indirizzi contrari all’ordinamento nazionale dello Stato. “La organizzazione clericale che desta qualche maggiore apprensione – cito ancora la lettera – è quella giovanile che pretendendo di avere il monopolio della educazione della gioventù può agire in contrasto con l’Opera Nazionale Balilla”. “Posso inoltre assicurare – concludeva il Prefetto – che sono sorvegliati dagli organi di polizia tutti i maggiori esponenti dell’Azione Cattolica e specialmente quelli provenienti dal disciolto Partito Popolare, come quelli più sospettati di nutrire avversione al regime fascista”. La relazione è corredata da un elenco dei “Circoli o Gruppi dipendenti dall’Azione Cattolica esistenti nella Provincia di Rovigo alla data del 19 aprile 1928 (Anno VI dell’E.F.)”: sono 77 Circoli con 4100 soci, distribuiti tra le diocesi di Adria e Chioggia comprese nella Provincia di Rovigo.
L’accordo intervenuto tra la S. Sede e il Governo italiano l’11 febbraio 1929, mediante la firma del Trattato e del Concordato lateranense, che chiudeva di fatto la “questione romana”, dissipava solo in apparenza le nubi di diffidenza esistenti nei rapporti Stato-Chiesa. Mentre in Italia lo stato fascista consolidava sempre più la sua presenza nelle istituzioni, l’A.C. puntava molto sull’attività formativa, operando in maniera del tutto indipendente e quindi sfuggendo al controllo delle organizzazioni di regime. Proprio l’autonomia certamente non benevola al fascismo di cui godeva l’A.C., determinò la crisi scoppiata il 30 maggio 1931 quando il capo del Governo in persona diede ordine ai Prefetti di chiudere tutti i Circoli dell’A.C..
“Improvvisamente oggi – si legge nella cronistoria della Parrocchia della Cattedrale di Adria redatta dal cav. Giuseppe Sacchetto – è venuto l’ordine da parte dell’Autorità di P.S. dello scioglimento di tutta l’A.C.. Agenti di P.S. e RR. Carabinieri hanno asportato dall’altare maggiore le bandiere delle nostre Associazioni. I vessilli sono stati portati in una cella delle carceri. I dirigenti dell’A.C. della Cattedrale e della Tomba hanno dovuto subire stasera, alle 21, uno stringente interrogatorio in caserma dei RR.CC., presenti il Commissario di P.S. ed il Capitano dei Carabinieri. Il provvedimento è stato esteso a tutta Italia… E’ stato chiuso anche il Ricreatorio parrocchiale. La polizia ha posto i sigilli al Teatro Ferrini. Mons. Arciprete ha presentato una energica protesta alle Autorità”. A queste provocazioni Pio XI rispondeva con l’enciclica “Non abbiamo bisogno”, con cui criticava lo Stato educatore, giudicava erronee e false alcune dottrine del fascismo finalizzate alla divulgazione dell’odio e della violenza.
Sempre presso l’Archivio di Stato di Rovigo ho potuto rintracciare l’elenco dei Circoli Cattolici della Provincia (Diocesi di Adria e Chioggia) chiusi e disciolti a seguito delle disposizioni governative. L’elenco, redatto dal Comando provinciale dei Carabinieri di Rovigo il 26 giugno 1931, riporta dettagliatamente i nomi di 122 circoli dislocati in 70 diverse località.
Le limitazioni poste in quegli anni furono per l’Azione Cattolica occasione di crescita spirituale e di acquisizione dei valori autentici del cristianesimo.
In questo contesto dobbiamo considerare la figura e il sacrificio di Carlo Chiarato.
L’ambiente di formazione
Sebbene sia già stato in parte sopra ricordato, l’ambiente di formazione di Carlo Chiarato, figura di martire ancora poco conosciuta, merita un ulteriore approfondimento. Sotto la forte spinta spirituale impressa alla diocesi dal vescovo mantovano Mons. Anselmo Rizzi, salito sulla cattedra adriese non ancora trentanovenne nel 1913, sorsero in ogni parrocchia le scuole di religione e in ogni chiesa fu promosso il culto verso la SS.ma Eucaristia, fonte di vita e di purezza. Su queste premesse crebbero e si svilupparono i Circoli cattolici destinati ben presto a diventare solidi punti di formazione religiosa e civile. L’opera formativa della gioventù adriese fu particolarmente seguita da Mons. Filippo Pozzato, che si avvalse della collaborazione di ottimi presbiteri come don Guido Stocco, don Basilio Lodo, don Giovanni Toso, don Vittorio Casellato ed altri per sottrarre quanto più possibile i ragazzi alla propaganda vuota del regime, che anteponeva lo Stato a qualsiasi altro valore. Nelle adunanze plenarie del dopoguerra, i soci più anziani ricordavano ai giovani che non avevano conosciuto la dittatura, che prima della partecipazione alla S. Messa erano tenuti a partecipare alle parate domenicali organizzate nella piazza antistante la cattedrale. A questo rito pagano nessuno poteva sfuggire essendo le porte della chiesa presidiate dall’esterno per impedire le defezioni.
Chiesa, Ricreatorio e Teatro Ferrini erano i cardini sui quali poggiava l’azione formativa dei giovani cattolici. Ai più giovani, gli Aspiranti, veniva inculcata la regola “Preghiera, azione e sacrificio” integrata dall’impegno solenne di svolgere tutto in onore dell’Amico Gesù. “L’Aspirante vive di Gesù”, recitava infatti la regola. La medesima che impegnava i giovani a “donare il cuore a Maria”, per renderlo puro, amare il Papa, cioè la Chiesa di Cristo, ed amare la Patria, la casa di tutti. Sentimenti forti, rimasti scolpiti nelle coscienze di quei ragazzi che, in un mondo sconvolto da ideologie perverse, si fecero propugnatori di libertà e apostoli di pace.
La figura di Carlo Chiarato
Nato ad Adria il 21 dicembre 1909, fin da giovanissimo aveva militato nelle file del Circolo Giovanile “Beato Contardo Ferrini” della cattedrale. La sua fedele militanza è testimoniata dalla tessera di adesione per l’anno 1942, contrassegnata con il n. 62888, controfirmata dall’allora presidente diocesano dell’A.C. Uomini, Carlo Cibotto. Mons. Pietro Mazzocco, giunto ad Adria da Lendinara subito dopo la scomparsa dell’Arciprete Mons. Filippo Pozzato avvenuta nel 1942, ricordava Chiarato fedelissimo a tutti gli incontri del Circolo Giovanile, fervente nella preghiera, pieno di entusiasmo, impegnato nell’apostolato sociale. Quando ancora non si parlava di partiti, egli era fautore della partecipazione dei cattolici alla vita pubblica perché, sosteneva, essi dovevano portare nei vari livelli dello Stato la perenne testimonianza di Cristo. Carlo Chiarato, impiegato presso il Consorzio Agrario locale, viveva profondamente il cristianesimo, e per questo godeva stima e considerazione presso i giovani che frequentavano la parrocchia. Il suo carattere aperto, pronto al dialogo, lo rendeva amico di tutti. Non considerava mai nemico chi non la pensava come lui, ma vittima di ideologie non sane, dimostrando sempre per gli altri piena comprensione. La parola e l’esempio erano il binomio del suo apostolato. La sua coerenza ineccepibile suscitava stupore e ammirazione anche fuori dall’ambito parrocchiale.
Un giovane di questo stampo, educato alla scuola della vecchia anima popolare che indubbiamente aleggiava nei circoli cattolici durante il periodo della dittatura, non poteva non sentire forte il desiderio di contrastare le assurde teorie imposte con la coercizione, come le leggi razziali promulgate nel 1938. Carlo quindi divenne antifascista per una maturazione interna prima ancora di avere contatti con persone che si ripromettevano di combattere per la restaurazione della libertà.
Il fatto
Tutti possiamo immaginare l’euforia con la quale la stragrande maggioranza degli italiani accolse, il 25 luglio 1943, la notizia della caduta del fascismo. Era come una giornata di tiepido sole apparsa dopo un lungo e troppo rigido inverno protrattosi per vent’anni. Anche Adria, come molte altre località italiane, era stata raggiunta da questo nuovo clima di ottimismo e di speranza nel quale gli ideali repressi potevano nuovamente esprimersi in piena libertà. Questo nuovo stato di cose permise a molti di riallacciare vecchie amicizie raffreddate per timore di ritorsioni, e di dar vita a nuove alleanze fra persone provenienti da strade diverse ma che avevano l’unico obiettivo di superare la dittatura. Tutto questo fermento positivo però ebbe vita breve. L’ 8 settembre 1943 il Governo Badoglio, seguito alla caduta di Mussolini, firmò l’armistizio con gli Alleati provocando l’ira del dittatore tedesco che, senza incontrare alcuna resistenza da parte italiana, fece occupare dalle sue truppe la Penisola. Mentre fervevano i contatti tra le forze politiche, per volontà del fuherer venne costituito in fretta e furia l’effimero governo di Salò. Tra i primi atti, il nuovo governo fascista compilò lunghe liste di cittadini considerati pericolosi e che pertanto dovevano essere posti in condizione di non nuocere. Questa azione repressiva si estese anche alla Provincia di Rovigo nel cui ambito fu preso di mira l’attivo gruppo adriese.
Nei primi mesi di ottobre 1943 il Prefetto di Rovigo Federico Menna manifestava al Prefetto di Verona Cosmin, presente il conte De Larderel, le sue preoccupazioni per la situazione di Adria e gli mostrava una lista di antifascisti di cui doveva essere disposto l’arresto immediato. Il nobile fiorentino De Larderel, questore della polizia politica scelto dal ministro Buffarini Guidi, si offrì in quella occasione di avvicinare il prof. Mariano Coletti considerato il più pericoloso della lista. Il Prefetto di Rovigo accettò e diede ordine al comandante dei carabinieri di Adria di far accogliere il De Larderel sotto il falso nome di Ignazio Costa, presso l’Albergo “Leon Bianco” di Adria. Prese subito contatti con il prof. Coletti, presentandosi come esponente del movimento clandestino e dimostrando buona conoscenza delle parentele ed amicizie dello stesso. Con la medesima tattica avvicinò pure Carlo Chiarato, stretto collaboratore di Coletti, intessendo in breve con lui un rapporto di amicizia. Quando credette di aver conquistato la fiducia di entrambi fissò un appuntamento per la sera del 22 ottobre 1943, alle 21, in via Peschiera, non lontano dal Cimitero adriese. In quella occasione sarebbe avvenuto un importante scambio di informazioni e la consegna di documenti compromettenti. Il De Larderel inoltre, avrebbe comunicato ai cospiratori la lista delle persone sospette alle autorità repubblichine. L’ora e la scelta del luogo avevano fatto sorgere qualche dubbio e per questo i due segnalarono la cosa ad alcuni amici fidati. Per qualche istante Coletti ebbe il presentimento che quello sconosciuto fosse un falso patriota. Anche Chiarato doveva avere avuto il medesimo presentimento dal momento che la sera prima s’intrattenne a lungo con l’Assistente don Guido Stocco confidandosi e chiedendo consiglio. “Non andare Carlo, si tratta di un tranello” insistette il sacerdote, ma non venne ascoltato. Del resto in quei momenti bui bisognava pure fidarsi di qualcuno, credere nella buona fede degli altri. Bisognava rischiare, fidandosi di credenziali che potevano anche non essere autentiche. Con questi sentimenti Chiarato e Coletti si avviarono all’appuntamento mentre la sirena annunciava l’allarme aereo. Si capì poi che l’espediente servì per rendere ancor più deserta la scena del delitto. Approfittando del trambusto il sicario, accompagnato in macchina dai carabinieri, si fece scaricare sul posto circa mezz’ora prima del previsto. Tutto era pronto per l’agguato. Quando i convenuti se ne resero conto e tentarono la fuga era troppo tardi perché furono colpiti alle spalle. Chiarato cadde subito a terra, mentre il Coletti benché ferito, tentò di strappare l’arma all’aggressore ma un nuovo proiettile lo colpì alla mano. Come appare dagli atti processuali, i carabinieri, informati dell’agguato, erano sul posto e, mentre l’attentatore si dileguava, caricarono su una macchina i feriti dirigendosi verso l’ospedale. Durante il tragitto, Carlo chiese con insistenza di poter salutare gli amici riuniti presso l’Oratorio parrocchiale per il ritiro spirituale mensile. L’auto si fermò in via Cairoli ed i giovani presenti lo deposero sul tavolo della canonica dove il dott. Bruno Dalla Pasqua, suo coetaneo, non potè altro che constatare la gravità della ferita all’addome. Davanti agli amici che assistevano impotenti egli era sereno come al mattino, quando prese la Comunione dalle mani del suo assistente. Carlo era ormai agonizzante ma lucidissimo. Parlando a stento agli amici di Associazione addolorati ricordava i valori nei quali aveva creduto e per difendere i quali stava per morire. “Muoio per la libertà della nostra patria”, ripeteva. “Perdono a chi mi ha ferito ed offro la mia vita per la Chiesa e per la pace”. “Queste furono le ultime parole pronunciate mentre veniva caricato sull’ambulanza”, ci raccontava l’Arciprete Mons. Pietro Mazzocco che gli ha impartito l’unzione degli infermi. L’Assistente ecclesiastico don Guido lo guardò ancora una volta, rassicurandolo; “coraggio Carlo, ce la farai..”, ma Carlo scosse il capo e chiuse gli occhi. Morì all’alba del 23 ottobre tra il compianto generale.
Un breve trafiletto sul “Resto del Carlino” del 26 ottobre 1943, definì il duplice crimine opera di uno sconosciuto e tutto si chiuse lì. Ma nel processo svolto presso la Corte d’Assise di Rovigo tra il 2 e il 9 ottobre 1946 venne fuori tutta la verità e il nobile fiorentino fu condannato a 21 anni di reclusione. L’atto eroico fu ricordato per alcuni anni dopo la Liberazione. Nel ventesimo anniversario della scomparsa l’Amministrazione comunale eresse sul luogo del delitto una stele che viene onorata ancor oggi, durante le feste patriottiche.
Conclusione
Carlo Chiarato fu il primo martire per la libertà in Polesine ed uno dei primi in Italia. Mario Ferrari-Aggradi, collaboratore di Ezio Vanoni e più volte Ministro, nella lettera inviatami il 14 novembre 1986 in occasione della presentazione dell’opuscolo da me curato, scriveva che l’esempio di Chiarato “dimostra non solo quanto generoso sia stato il sacrificio di cattolici benemeriti, ma altresì come la Resistenza abbia rappresentato un ‘movimento ideale’ e un grande ‘moto di popolo’”. L’illustre economista, uomo della Resistenza, aveva ben presente quanto i cattolici avessero influito nella ripresa della vita democratica della Nazione. Per questo, personalità come Carlo Chiarato, Torquato Fraccon ed altri militanti dell’Azione Cattolica polesana di quel periodo non possono essere dimenticate. Nello sbandamento generale odierno provocato dallo smarrimento dei valori cristiani, essi rimangono monito perenne di fede vissuta fino alle conseguenze più estreme.
Testo a cura del rag. Aldo Rondina (ricercatore della storia diocesana), presentato durante la Festa Diocesana dell'Adesione dell'8 dicembre 2009.
Il 26 settembre scorso, nella sua prolusione alla sessione autunnale del Consiglio permanente della CEI, il card. Bagnasco ha tracciato un quadro problematico della situazione italiana, soffermandosi anche sul ruolo che i cattolici possono (e debbono) tornare ad avere nella società e nella politica: “Gli anni da cui proveniamo potrebbero aver indotto talora a tentazioni e smarrimenti, ma hanno indubbiamente spinto i cattolici, alla scuola dei Papi, a maturare una più avvertita coscienza di sé e del proprio compito nel mondo”.
Richiamando queste parole del presidente della CEI acquista un significato anche di attualità riproporre all’attenzione di tutti noi una figura di cattolico polesano attivo nell’azione sociale e politica quale fu Umberto Merlin, che dedicò le proprie energie all’impegno per il bene comune in una fase storica drammaticamente travagliata, caratterizzata da forti agitazioni sociali, dalla prima guerra mondiale, dalla dittatura fascista, dalla seconda guerra mondiale e dalla guerra fredda. Anche Merlin si era formato “alla scuola dei Papi”, grazie ad un mediatore illuminato quale fu mons. Giacomo Sichirollo che, attento ai “segni dei tempi”, approfondiva e divulgava il significato del magistero di Leone XIII specialmente nel campo sociale, cogliendo con prudenza ma con acume le aperture che, spostando l’attenzione dalle questioni squisitamente italiane alle problematiche della giustizia nei rapporti socio-economici in generale, cominciavano ad alleggerire il conflitto fra Chiesa e Stato che era culminato nel 1870 con la conquista di Roma e la sua proclamazione a capitale del giovane Stato unitario.
E’ doveroso avvertire che il profilo di Merlin che qui si presenta è lacunoso e non adeguatamente organico: ma è frutto sia dei limiti di tempo (di quello concesso per la presentazione ma anche di quello che è stato disponibile per l’elaborazione) sia del livello degli studii individuati relativi a questa pur interessante personalità.
Merlin era nato a Rovigo il 17 febbraio 1885, primo figlio di Andrea, impiegato di modesta condizione, e di Elisa Bisaglia. Dopo di lui nasceranno Guido, Antonietta, Ugo e Giuseppe. Umberto frequentò la scuola pubblica, e al Liceo “Celio” fu compagno di classe di Giacomo Matteotti, avviando rapporti di stima reciproca che non saranno incrinati dalla opposta militanza politica; frequentò anche la parrocchia di S. Francesco, dove si inserì nel gruppo della Società della Gioventù Cattolica Italiana, ed è probabile che abbia conosciuto Sichirollo in quell’ambente: secondo quanto lo stesso Merlin, ormai anziano, ricorderà nel 1961 – ricorrendo il cinquantenario della morte del sacerdote – egli aveva 15 anni (e, di conseguenza, il monsignore aveva da poco passati i 60). Sichirollo dovette intuire sùbito la sensibilità e le potenzialità del giovane, e seppe stimolare il suo spirito critico anche fornendogli mètodo e argomenti per sostenere confronti con chi lanciava calunnie contro la Chiesa. Certo è che nel 1902 Sichirollo, avendo accanto a sé i due giovani Umberto Merlin e Italico Corradino Cappellotto, fondò il Circolo democratico cristiano che volle caratterizzato da ubbidienza e umiltà, distinguendolo dalle effervescenze dei seguaci di don Romolo Murri.
Merlin si impegnò nell’apostolato giovanile, assumendo il ruolo di presidente del Circolo della Gioventù Cattolica di S. Francesco, poi di presidente diocesano, preoccupandosi di tenere vivi i contatti con i varii circoli parrocchiali (che, data la situazione di allora, spesso poteva raggiungere solo in bicicletta) e nel 1903 sarà presidente regionale veneto dell’Associazione; contemporaneamente affrontò con generosa dedizione le questioni sociali che in quegli anni ormai si dibattevano in modo drammatico. Malgrado tanta attività nel 1906, a 21 anni, otteneva a pieni voti la laurea in Giurisprudenza all’Università di Padova. Per il praticantato necessario per arrivare alla professione forense Merlin entrò nello studio di Ugo Maneo, liberale (e anticlericale e massone, secondo alcuni, buon cattolico secondo altri) uno dei più qualificati professionisti rodigini. Avviata con successo l’attività legale, Merlin sposa Maria Vittoria Lorenzoni, dalla quale avrà quattro figli.
Come s’è accennato, Merlin si era introdotto nelle questioni sociali, e anche dalle colonne del settimanale diocesano mostrò di avere a cuore la condizione del proletariato del Polesine. La provincia era caratterizzata da un’economia ancora quasi esclusivamente agricola, e solo da poco si era avviata verso l’ammodernamento tecnico (la Cattedra ambulante di agricoltura venne istituita in Polesine nel 1886: fu la prima in Italia); sempre incombente però era il pericolo delle alluvioni: ma quando si scende sotto un certo livello, anche le disgrazie possono apparire utili: e infatti l’alluvione dell’Adige del 1882 – una delle più volente della storia del Polesine – aveva giovato ai poveri perché le sovvenzioni statali per riparare ai danni avevano consentito per un paio di anni di migliorare un po’ il nutrimento della popolazione colpita, con diminuzione delle malattie endemiche. Nel 1884 si era verificato il primo sciopero agrario, dal grido di battaglia “la boje!”, che mostrava, fra l’altro, come anche fra il proletariato rurale polesano circolassero ormai le idee reclamanti una diversa concezione della dignità umana: ne erano alfieri fra noi – tutti fieramente anticlericali – Alberto e Jessie Mario e il giovane medico Nicola Badaloni proveniente da Recanati, che assunse la condotta di Trecenta nel 1878, entrando poco dopo nella Lega per la Democrazia: figura carismatica, quella di Badaloni, per lo spirito di autentico missionario con cui affrontò il ruolo di difensore dei poveri suggeritogli dalla professione medica e presto maturato non solo nella ricerca scientifica per combattere le malattie ma anche nell’impegno politico per migliorare le condizioni sociali ed economiche della popolazione rurale.
La Chiesa, dal canto suo, nel 1891 si apriva direttamente e ufficialmente alla questione sociale grazie al papa Leone XIII che il 15 maggio pubblicava l’enciclica Rerum Novarum; ma era dalla metà degli anni ’70 che nel mondo cattolico si era avviata l’attenzione ai problemi sociali, purtroppo complicati dall’intrecciarsi di questioni contingenti dettate dalle posizioni non solo anticlericali ma soprattutto – nei fatti o anche con argomentazioni teoriche – ostili alla religione sia da parte del giovane Stato italiano sia da parte del movimento anarchico e di quello radicale. Quest’ultimo sfociava, nel 1892, nella creazione del Partito dei Lavoratori Italiani, presto divenuto Partito Socialista, che sarà sempre dibattuto fra due anime: quella riformista e quella rivoluzionaria. Ma poi non si può trascurare che gli ideali, spesso nobili, venivano calati in una popolazione di infimo livello culturale, per cui venivano tradotti in azioni di violenza gratuita. In sostanza, quando Merlin si affacciava alla vita politica vedeva le drammatiche tensioni di una società la cui classe dirigente era arroccata nella difesa dei privilegii assegnatile dalla tradizione antica, mentre la parte più povera (e più consistente) della popolazione, spinta dalla fame, prestava attenzione a chi le prospettava la possibilità di raggiungere condizioni di vita dignitose: e comprensibilmente i poveri si sentivano attratti più dalle proposte socialiste che proponevano il cambiamento con una rivoluzione che dall’invito alla sopportazione proveniente dal clero.
In realtà la Chiesa, comunque, si rendeva conto che la proposta di fede cristiana doveva misurarsi con le situazioni della vita di ogni giorno: da questo punto di vista, è significativo che nel 1893 si avviasse in diocesi di Adria la creazione di Casse Rurali e che Sichirollo istituisse una cattedra di Economia Sociale e di Agricoltura nel Seminario diocesano di Rovigo per preparare i preti ad affrontare la realtà polesana. Merlin, dal canto suo, si impegnerà a fondo nel sostegno e nella valorizzazione delle Casse Rurali.
Anche dal punto di vista più strettamente politico la situazione dei cattolici italiani va, sia pur lentamente, mutando: nel 1904 comincia ad allentarsi il rigore del non expedit, e qua e là si consente ai cattolici di collaborare con lo Stato partecipando all’elezione della Camera dei deputati purché si scelgano candidati “sicuri”; la concessione si amplia lievemente nel 1909; nel 1913 – quando la “minaccia” socialista si fa più concreta perché la nuova legge elettorale ha ampliato il diritto di voto a tutti i cittadini maschi, anche analfabeti, purché abbiano almeno 30 anni (o 21 se hanno prestato regolarmente il servizio militare) – si ricorre ufficiosamente al “Patto Gentiloni”, applicato caso per caso: i cattolici potranno votare a favore di candidati sicuramente cristiani o per candidati liberali che si impegnino a non sostenere leggi contrarie alle esigenze della Chiesa. Per quanto riguarda il Polesine, il candidato proposto ai cattolici è Ugo Maneo.
Nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale. Inizialmente l’Italia assume un atteggiamento neutrale, ma nella società si scontrano due opposti atteggiamenti: la maggioranza composta in gran parte di socialisti e di cattolici vuole mantenere la non belligeranza, una forte minoranza, invece, preme perché si entri in guerra contro l’Austria per ricuperare all’Italia i territorii del Trentino, dell’Alto Adige e dell’Istria. Dopo mesi di incertezza, il governo decide per l’accettazione del conflitto e il 24 maggio 1915 anche l’Italia è in armi. Mentre i socialisti rimangono all’opposizione, i cattolici accettano il fatto compiuto perché ritengono ingiusto opporsi ad un simile evento restando comodamente a casa (sarà, anche questo, un motivo di contesa fra socialisti e cattolici). Merlin partecipa alla guerra con il grado di tenente.
La conclusione della guerra, sebbene ufficialmente vittoriosa per l’Italia, non porta la pace: al contrario, le conseguenze del modo in cui le operazioni belliche sono state condotte lascia una scia di tensioni che le difficoltà della riconversione dall’economia di guerra all’economia di pace rendono più acute. In questo clima la situazione politica italiana presenta due novità: per i cattolici è il momento di scendere in campo: per iniziativa di don Luigi Sturzo e con il tacito consenso della Santa Sede nasce il Partito Popolare Italiano, che viene fatto conoscere con il “manifesto” reso famoso come “Appello ai liberi e ai forti” lanciato la sera del 18 gennaio 1919: anche Merlin era stato accanto a Sturzo nell’elaborazione di quel testo. L’altra novità: il 23 marzo, a Milano Benito Mussolini – che alla fine del 1914 era stato radiato dal Partito Socialista per essersi convertito a favore della guerra – fonda i “Fasci di combattimento” in cui si riconoscono gli interventisti più esagitati. La prima verifica della validità di queste proposte è imminente: il 16 novembre di quello stesso anno si tengono le elezioni politiche che vedono la vittoria dei Socialisti (scontata, ma superiore alle attese), l’insufficiente prestazione dei partiti di ispirazione liberale, la sorprendente affermazione del neonato Partito Popolare, e la inconsistenza politica del fascismo di Mussolini. Nel collegio di Ferrara-Rovigo, che deve eleggere otto deputati, sei sono socialisti, uno è popolare (ed è Umberto Merlin), e uno del “blocco” governativo.
In Polesine (come altrove) i socialisti – la cui corrente massimalista, galvanizzata dalla rivoluzione russa del 1917, aveva raggiunto la maggioranza – avviarono azioni ispirate a intenti rivoluzionarii, con scioperi e aggressioni che colpirono anche Merlin, indirettamente (la notte del 1° gennaio 1920 il suo autista fu percosse la lasciato malconcio lungo una strada) o direttamente (il 27 settembre, a Lendinara, durante un comizio socialista il deputato popolare fu colpito con una bastonata così violenta che perse i sensi, e fu salvato da Matteotti che fermò l’aggressore e fece ricoverare Merlin in ospedale): ma si ebbero anche assassinii di persone politicamente vicini agli agrarii. Naturalmente situazioni del genere stimolarono reazioni altrettanto violente: e questo aprì spazio al fascismo che si organizzò per compiere “spedizioni punitive” che furono sostenute dagli agrarii.
Nell’aprile 1921 il primo ministro Giolitti di fronte all’ostilità pregiudiziale delle sinistre decide lo scioglimento anticipato della Camera, indicendo nuove elezioni per la metà di maggio. Le squadre fasciste, che già hanno pressoché annullato l’organizzazione socialista aggredendone i dirigenti, si rivolgono ora contro il mondo cattolico a Polesella, a Bergantino, a Contarina, a Bellombra. La competizione elettorale si svolge con frequenti intimidazioni, tanto che la Commissione parlamentare e poi la Giunta delle elezioni decidono di annullare l’elezione di un candidato fascista polesano. Qualche giorno dopo Rovigo è invasa da squadre fasciste giunte da diversi luoghi del Veneto e dopo un comizio si disperdono per le vie cittadine alla caccia del clericali prendendo di mira la sede delle associazioni cattoliche e la casa di Umberto Merlin; diverse persone vengono bastonate perché portano il distintivo dell’Azione Cattolica... L’invasione dura tre giorni (gli squadristi pernottano in aule scolastiche, avendo imposto la sospensione dell’attività didattica) senza che ci sia intervento della forza pubblica.
Nel giro di meno di due anni il fascismo era divenuto un movimento consistente, raggiungendo più di 300.000 aderenti organizzati e armati: ciò che permise a Mussolini di pensare e realizzare la “marcia su Roma” (28 ottobre 1922), ottenendo dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il governo. Con straordinaria spregiudicatezza il nuovo primo ministro gioca con lusinghe e minacce, suscitando in gran parte dei politici (ivi compreso un uomo esperto come Giolitti) l’impressione di poter arrivare a porre sotto controllo le “esuberanze” squadriste che, intanto, tengono a bada i socialisti: per cui non solo i liberali ma anche i cattolici ritengono opportuno partecipare al governo (Merlin è sottosegretario alle terre liberate); ma nel 1924, il 26 aprile, le elezioni sono nuovamente condotte con palesi brogli e violenze: alla fine di maggio in Parlamento Matteotti denuncia vigorosamente le irregolarità, consapevole che questo potrà costargli la vita. Qualche giorno dopo, infatti, ne viene denunciata la scomparsa e presto si capisce che è stato assassinato, suscitando forte commozione nel Paese: non abbastanza forte, tuttavia, da far crollare il governo fascista. I parlamentari non fascisti si ritirano dal governo (anche Merlin, dunque) e dalla stessa presenza in aula, dando vita al cosiddetto “Aventino”, ma non sanno trovare quel minimo di unità che sarebbe necessaria per mettere veramente in crisi Mussolini: il quale sa superare le obiettive difficoltà e, anche facendo leva su un recente, fallito attentato di cui era stato oggetto, fa approvare, il 9 novembre 1926, la decadenza dal mandato parlamentare di 120 deputati dell’opposizione (fra cui Merlin) per poi procedere alla completa “fascistizzazione” dello Stato, sopprimendo tutti i partiti di opposizione (25 novembre 1926).
Merlin deve tornare alla vita “civile”, alla sua professione di avvocato; non per questo rinuncia all’impegno nel mondo cattolico riprendendo i contatti con l’associazionismo a cui, entrando in politica, aveva dovuto rinunciare per non coinvolgere la Chiesa in attività ad essa estranee. Un paio di volte, durante il regime fascista, è fermato perché tenta di mantenere i contatti con gli amici del disciolto PPI, e una volta, sul finire degli anni Venti, il suo studio è assediato dagli squadristi.
Dopo il 25 luglio 1943 attorno alla sua persona si coagularono le forze antifasciste e cattoliche polesane, tanto che fu eletto primo sindaco di Rovigo dopo il 25 aprile 1945: in quella veste fu lui a tessere l’elogio funebre del maestro ed amico Ugo Maneo, morto quasi novantenne a metà luglio di quell’anno.
Terminata la guerra anche Merlin riprendeva l’impegno politico per il quale si sentiva chiamato a dare testimonianza. Il 24-27 aprile 1946 si tenne a Roma, nell’aula magna dell’Università, il primo congresso nazionale della Democrazia Cristiana. In quell’occasione vennero eletti i 60 consiglieri nazionali del partito, e Merlin fu tra gli eletti. Nel 1949, quando il Congresso DC (era il quarto) fu tenuto a Venezia, fu eletto presidente del Congresso.
Nel 1946 era stato eletto, nel collegio di Verona, deputato alla Costituente: fece parte della prima sottocommissione, incaricata di trattare “Diritti e doveri dei cittadini” fornendo contributi rilevanti nella proposta e nella formulazione di alcun articoli della Carta costituzionale: in particolare l’art. 30 sui diritti e sui doveri dei genitori, l’art. 40 sul diritto allo sciopero regolato dalle leggi, e l’art. 49 sulla difesa della Patria portano il segno della proposta firmata da Umberto Merlin. Nel 1948 divenne senatore di diritto per essere stato deputato in quattro legislature (XXV, XXVI, XXVII e Assemblea Costituente). Successivamente fu di nuovo eletto al Senato nel collegio di Piove di Sacco, e ricevette incarichi di governo: fu per De Gasperi ministro delle Poste e telecomunicazioni nel IV Governo (31 maggio 1947 – 23 maggio 1948) e nell’VIII (16 luglio – 16 agosto 1953); nel successivo Governo Pella (17 agosto 1953 – 17 gennaio 1954) e nel I Governo Fanfani (18 gennaio – 9 febbraio 1954) fu ministro dei Lavori pubblici.
Nel novembre 1951 le rotte dell’argine sinistro del Po prima presso Canaro e sùbito dopo presso Occhiobello provocarono la disastrosa inondazione del Polesine. Anche in questa occasione Merlin volle mettersi a disposizione della propria terra, ma – come risulta dalla testimonianza di Giuseppe Brusasca – il primo ministro Alcide De Gasperi ritenne non opportuno accogliere quella disponibilità: “per forza di cose, con i problemi che si sarebbero dovuti affrontare, sarebbe stato necessario assumere decisioni dure, anche impopolari. De Gasperi riteneva che non fosse giusto far pagare a Merlin un prezzo così alto. La scelta dunque cadde su di me...”. Merlin era fra coloro che ritenevano necessario tagliare la Fossa di Polesella per consentire all’acqua di defluire al mare: provvedimento che venne attuato il 23 novembre, con un ritardo che aggravò il danno prodotto dall’evento. Purtroppo negli anni successivi altre rotte del Po si verificarono nella zona del Delta, e anche in queste occasioni Merlin si batté perché si provvedesse ad una sistemazione organica della parte terminale del fiume.
Continuò a dominare incontrastato la scena politica in Polesine attraverso la presenza nel Consiglio comunale del capoluogo e nel Consiglio provinciale. L’ultimo atto politico all’interno del suo partito fu compiuto da Merlin in occasione del Congresso Nazionale di Firenze, nel 1959: fu infatti l’unico esponente storico a dare il proprio appoggio alla mozione presentata da Amintore Fanfani.
Morì a Padova, dove da tempo aveva ufficialmente trasferito la residenza, il 22 maggio 1964.
A cura del Prof. Leobaldo Traniello
Alberto Marvelli, giovane forte e libero, generoso figlio della Chiesa di Rimini e dell’Azione Cattolica, ha concepito tutta la sua breve vita di appena 28 anni come un dono d’amore a Gesù per il bene dei fratelli.
Nacque a Ferrara il 21 marzo 1918, da Maria e Alfredo (anche se sui documenti dell’anagrafe è riportata la data del 18 marzo). Il padre Alfredo era direttore della Banca Popolare del Polesine in Rovigo e, cessato il pericolo della guerra, si riunisce a Rovigo, nel quartiere del Duomo, con la famiglia ed è qui che Alberto vive i suoi primi anni. Per seguire il lavoro del padre, si trasferisce poi con la famiglia a Rimini. Lì frequenta l’Oratorio salesiano e l’Azione Cattolica, dove matura la sua fede con una scelta decisiva: “il mio programma si compendia in una parola: santo”. Entrò a far parte dell’Azione Cattolica a 12 anni vi rimase fino alla morte svolgendo anche incarichi direttivi a livello diocesano e regionale. Nella sua giovinezza partecipa attivamente anche ad altre esperienze che l’associazionismo cattolico esprimeva: Fuci, Laureati cattolici, Conferenze S. Vincenzo, Società Operaia, ACLI, donando con piena generosità e letizia il suo cuore di apostolo e divenendo, anche in ciò, segno di unione e collaborazione. E’ forte di carattere, fermo, deciso, volitivo, generoso; ha un forte senso della giustizia. Ha un grande ascendente fra tutti i compagni. E’ un giovane sportivo e dinamico: ama tutti gli sport: il tennis, la pallavolo, l’atletica, il calcio, il nuoto, le escursioni in montagna. Ma la sua più grande passione sarà la bicicletta, anche come mezzo privilegiato del suo apostolato e della sua azione caritativa. Nel tempo libero, anche per sostenere la famiglia dopo la morte del padre e i suoi studi universitari, veniva a lavorare in uno zuccherificio in Polesine, e più tardi in una fonderia a Cinisello Balsamo. Conseguita la laurea in ingegneria meccanica a Bologna il 30 giugno 1941 Alberto deve partire militare. Congedato, perché ha altri tre fratelli al fronte, lavora per un breve periodo come ingegnere alla FIAT di Torino. Nel periodo dell’occupazione tedesca, Alberto riuscì a salvare molti giovani dalle deportazioni tedesche. Riuscì, con una coraggiosa ed eroica azione, ad aprire i vagoni, già piombati e in partenza nella stazione di Santarcangelo e liberare uomini e donne destinati ai campi di concentramento. Dopo ogni bombardamento è il primo a correre in soccorso ai feriti, a incoraggiare i superstiti, ad assistere i moribondi, a sottrarre alle macerie i sepolti vivi. Alberto distribuiva ai poveri tutto quello che riusciva a raccogliere, si recava dai contadini e negozianti, comperava ogni genere di viveri. Poi in bicicletta, carica di sporte, andava dove sapeva che c’era fame e malattia. A volte tornava a casa senza scarpe o senza bicicletta: aveva donato a chi ne aveva più bisogno. Dopo la liberazione della città, il 23 settembre 1945, si costituì la prima giunta del Comitato di Liberazione. Fra gli assessori c’è anche Alberto Marvelli: non è iscritto ad alcun partito, non è stato partigiano: ma tutti hanno riconosciuto ed apprezzato l’enorme lavoro da lui compiuto a favore degli sfollati. E’ giovane, ha solo 26 anni, ma ha concretezza e competenza nell’affrontare i problemi, il coraggio nelle situazioni più difficili, la disponibilità senza limiti. Gli affidano il compito più difficile: la commissione alloggi, che deve disciplinare l’assegnazione degli alloggi in città, comporre vertenze, requisire appartamenti, non senza inevitabili risentimenti. Poi gli affidano il compito della ricostruzione, come collaboratore della Sezione distaccata del Genio Civile. E’ con spirito di servizio che Alberto affronta il suo impegno civico. Sentì e visse il suo impegno in politica come un servizio alla collettività organizzata: l’attività politica poteva e doveva diventare l’espressione più alta della fede vissuta. Nel 1945 il Vescovo lo chiama a dirigere i Laureati Cattolici. Il suo impegno si potrebbe sintetizzare in due parole: cultura e carità. “Non bisogna portare la cultura solo agli intellettuali, ma a tutto il popolo”: Così dà vita ad una università popolare. Apre una mensa per i poveri. Li invita a messa, prega con loro; poi al “ristorante” scodella le minestre e ascolta le loro necessità. La sua attività a favore di tutti è instancabile: è tra i fondatori delle ACLI, costituisce una cooperativa di lavoratori edili, la prima cooperativa “bianca” nella “rossa” Romagna. La sera del 5 ottobre 1946 si reca in bicicletta a tenere un comizio elettorale; anche lui è candidato per l’elezione della prima amministrazione comunale. Alle 20,30 un camion militare lo investe. Morirà, a soli 28 anni, poche ore dopo senza aver ripreso conoscenza; la madre Maria, forte nel dolore, gli è accanto. E' stato beatificato da Papa Giovanni II il 5 settembre 2004 a Loreto.
Nel mese di marzo 2017 Il Comune di Rovigo cogliendo la richiesta dell’Azione Cattolica diocesana ha intitolato una piazzetta all’ing. Marvelli.