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«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e custodisse» (Gen 2,15). Con queste parole la sacra Scrittura pone l’orizzonte entro il quale descrivere il valore del lavoro, collocandolo all’interno della stessa natura dell’uomo quale creatura “posta” da Dio, e quindi in relazione con lui, nel giardino della creazione che ha ricevuto in dono con il compito di coltivarla e custodirla. Il lavoro, allora, si inserisce nelle opere che l’uomo realizza quale collaboratore di Dio definendo l’attività umana a partire e in vista di questa collaborazione con Dio.
Il lavoro non può avere un valore assoluto fine a se stesso, non si può configurare come una semplice egoistica autopromozione umana e nemmeno può degenerare nello sfruttamento indiscriminato della creazione o, peggio ancora, nella prevaricazione dell’uomo che sfrutta l’uomo in vista dell’unica legge del massimo profitto. È sempre la sacra Scrittura, infatti, che ci ricorda come «Dio che tutto hai creato con la tua parola, che con la tua sapienza hai formato l’uomo, perché domini sulle creature fatte da te, e governi il mondo con santità e giustizia» (Sap 9,2-3). L’uomo, quindi, domina sul mondo anche attraverso il suo lavoro, ma la santità e la giustizia devono essere le leggi che regolano il mondo e il rapporto che l’uomo ha con esso, perché è voluto da Dio. Tra queste leggi vi è una regola insegnata da Paolo: «Chi non vuol lavorare neppure mangi» (2Tess 3,10) in cui si pone in rilievo come il lavoro non sia un elemento opzionale per la concezione cristiana della vita, ma essenziale come il nutrirsi, un diritto-dovere costitutivo dell’uomo.
La motivazione con la quale papa Paolo VI proclamò S. Benedetto Patrono principale d’Europa (24 ottobre 1964) così si esprime «Con la croce, il libro e l’aratro, egli [S. Benedetto] e i suoi figli trasmisero la civiltà cristiana alle varie popolazioni sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia». “La croce, il libro e l’aratro”, ossia la fede, lo studio e il lavoro, costituiscono la “civiltà cristiana” che nasce dalla Regola benedettina. È la fede che ha consentito la formazione di comunità in cui il tessuto relazionale si coagulasse nell’amore in Cristo e permettesse di superare le varie appartenenze di tipo sociale o etnico dei propri membri per costituire un nuova realtà. Il secondo elemento è lo studio, in primis della Bibbia, da leggere, meditare, pregare e contemplare, quale fonte continua di vita spirituale. Infine il lavoro, valorizzato come continuazione dell’opera di Dio, assume una particolare importanza nella Regola di S. Benedetto visto in funzione del bene comune. Anche il lavoro manuale acquista la sua dignità. Non più riservato agli schiavi, il lavoro con le mani rende il monaco, e quindi l’uomo, attento alla storia in cui è inserito e da cui trae ispirazione per la modalità concreta per le proprie attività lavorative. È così che attraverso il lavoro ‑ di qualsiasi genere purché compiuto nell’obbedienza e lasciando il primato a Dio cercato nella preghiera ‑ generazioni di monaci sono stati impegnati nei campi più disparati, dall’agricoltura all’artigianato, dalla tecnica alla scienza, dalla cultura all’arte, alla promozione umana, segnando spesso dei punti di svolta nella storia.
In definitiva il lavoro, cristianamente inteso, dovrà esprimere la collaborazione dell’uomo con l’azione creatrice di Dio offrendo così all’attività lavorativa una valenza spirituale (rapporto con Dio) in cui si possano trovare nella giusta e sapiente collocazione non solo parametri di efficienza, quanto soprattutto valori di relazione (rapporto con l’uomo) nella pari dignità di qualunque lavoro umano.
Abate Christopher M. Zielinski, osb oliv.
Pubblicato su La Settimana di Domenica 23 Febbraio 2020