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Il Sacrificio di Carlo Chiarato

Amate i vostri nemici, e pregate per quelli che vi perseguitano” (Mt. VI, 44). Il breve tratto del Vangelo di Marco, ben si adatta alla vicenda che oggi andiamo ad evocare. Il cammino sinodale intrapreso lo scorso anno ci porta ad immergerci nella storia della nostra Chiesa particolare, alla ricerca delle sue radici più genuine “per riscoprire la sua identità e quindi il suo passato…, per rilevare qual è stato il suo ruolo nel nostro Polesine, per individuare quale può essere il suo contributo nella costruzione del futuro di questo territorio”. In questa luce si illuminano figure di grande valore come Carlo Chiarato che oggi cercheremo di approfondire. Morto ad Adria il 23 ottobre 1943 in seguito alle gravi ferite riportate in una imboscata, Chiarato si era formato nelle file dell’Azione Cattolica della cattedrale seguendo gli insegnamenti dell’Arciprete mons. Filippo Pozzato e dell’Assistente don Guido Stocco. In punto di morte volle proclamare la sua fedeltà a Cristo pronunciando parole di perdono per il suo aggressore e offrendo il suo sacrificio “per la Chiesa e per la Pace”.

Quadro di riferimento storico

Nel febbraio 1922 saliva al soglio di Pietro Pio XI. Egli definiva l’Azione Cattolica come “partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico” per la difesa dei principi religiosi e morali e per la cristianizzazione della società. Nello stesso anno, tra il 27 e il 28 ottobre, la grottesca “marcia su Roma” portava al potere il fascismo, negatore di fatto dei valori proclamati dal Pontefice. Per la cronaca, in quegli stessi giorni si svolgeva ad Adria con grande solennità il 3° Congresso Eucaristico diocesano. Sempre nel 1922, scrive il dott. Adriano Mazzetti1 “le associazioni del laicato cattolico polesano (furono) oggetto di violenti attacchi da parte del movimento fascista che si stava rapidamente sviluppando in Polesine. Nella primavera dello stesso anno a Rovigo (ma anche a Costa, Villanova, Ficarolo, Ariano Polesine) furono distrutte le sedi delle associazioni cattoliche…”. Il nascente movimento dunque non vedeva di buon occhio l’Azione Cattolica, considerata un concorrente pericoloso nei confronti del nuovo assetto istituzionale dello Stato. Una lettera emblematica che ho rintracciato presso l’Archivio di Stato di Rovigo, spiega assai bene questo stato di cose.

“In questa Provincia – scriveva al Ministero dell’Interno il 19 aprile 1928 il Prefetto di Rovigo – l’Azione Cattolica ha avuto il suo sviluppo secondo le direttive impartite dal Pontefice (Pio XI) ai Vescovi, ed a mezzo delle tre organizzazioni: Federazione Italiana Uomini Cattolici, Unione Femminile Cattolica Italiana e Società della Gioventù Cattolica Italiana, per ciascuna delle quali esiste in questa Provincia la rispettiva Federazione Diocesana...Risulta che la maggior cura da parte delle autorità e degli agenti ecclesiastici, viene riposta in pro dei circoli della gioventù cattolica, allo scopo di meglio svolgere il programma di educazione e di propaganda”. Dopo aver rilevato una forte accelerazione dell’attività organizzativa cattolica per far crescere gruppi e circoli in ogni parrocchia, il Prefetto assicurava il Ministero sulla stretta vigilanza posta in atto dai Podestà e dai Segretari Politici dei fasci, su eventuali indirizzi contrari all’ordinamento nazionale dello Stato. “La organizzazione clericale che desta qualche maggiore apprensione – cito ancora la lettera – è quella giovanile che pretendendo di avere il monopolio della educazione della gioventù può agire in contrasto con l’Opera Nazionale Balilla”. “Posso inoltre assicurare – concludeva il Prefetto – che sono sorvegliati dagli organi di polizia tutti i maggiori esponenti dell’Azione Cattolica e specialmente quelli provenienti dal disciolto Partito Popolare, come quelli più sospettati di nutrire avversione al regime fascista”. La relazione è corredata da un elenco dei “Circoli o Gruppi dipendenti dall’Azione Cattolica esistenti nella Provincia di Rovigo alla data del 19 aprile 1928 (Anno VI dell’E.F.)”: sono 77 Circoli con 4100 soci, distribuiti tra le diocesi di Adria e Chioggia comprese nella Provincia di Rovigo.

L’accordo intervenuto tra la S. Sede e il Governo italiano l’11 febbraio 1929, mediante la firma del Trattato e del Concordato lateranense, che chiudeva di fatto la “questione romana”, dissipava solo in apparenza le nubi di diffidenza esistenti nei rapporti Stato-Chiesa. Mentre in Italia lo stato fascista consolidava sempre più la sua presenza nelle istituzioni, l’A.C. puntava molto sull’attività formativa, operando in maniera del tutto indipendente e quindi sfuggendo al controllo delle organizzazioni di regime. Proprio l’autonomia certamente non benevola al fascismo di cui godeva l’A.C., determinò la crisi scoppiata il 30 maggio 1931 quando il capo del Governo in persona diede ordine ai Prefetti di chiudere tutti i Circoli dell’A.C..

“Improvvisamente oggi – si legge nella cronistoria della Parrocchia della Cattedrale di Adria redatta dal cav. Giuseppe Sacchetto – è venuto l’ordine da parte dell’Autorità di P.S. dello scioglimento di tutta l’A.C.. Agenti di P.S. e RR. Carabinieri hanno asportato dall’altare maggiore le bandiere delle nostre Associazioni. I vessilli sono stati portati in una cella delle carceri. I dirigenti dell’A.C. della Cattedrale e della Tomba hanno dovuto subire stasera, alle 21, uno stringente interrogatorio in caserma dei RR.CC., presenti il Commissario di P.S. ed il Capitano dei Carabinieri. Il provvedimento è stato esteso a tutta Italia… E’ stato chiuso anche il Ricreatorio parrocchiale. La polizia ha posto i sigilli al Teatro Ferrini. Mons. Arciprete ha presentato una energica protesta alle Autorità”. A queste provocazioni Pio XI rispondeva con l’enciclica “Non abbiamo bisogno”, con cui criticava lo Stato educatore, giudicava erronee e false alcune dottrine del fascismo finalizzate alla divulgazione dell’odio e della violenza.

Sempre presso l’Archivio di Stato di Rovigo ho potuto rintracciare l’elenco dei Circoli Cattolici della Provincia (Diocesi di Adria e Chioggia) chiusi e disciolti a seguito delle disposizioni governative. L’elenco, redatto dal Comando provinciale dei Carabinieri di Rovigo il 26 giugno 1931, riporta dettagliatamente i nomi di 122 circoli dislocati in 70 diverse località.

Le limitazioni poste in quegli anni furono per l’Azione Cattolica occasione di crescita spirituale e di acquisizione dei valori autentici del cristianesimo.

In questo contesto dobbiamo considerare la figura e il sacrificio di Carlo Chiarato.

L’ambiente di formazione

Sebbene sia già stato in parte sopra ricordato, l’ambiente di formazione di Carlo Chiarato, figura di martire ancora poco conosciuta, merita un ulteriore approfondimento. Sotto la forte spinta spirituale impressa alla diocesi dal vescovo mantovano Mons. Anselmo Rizzi, salito sulla cattedra adriese non ancora trentanovenne nel 1913, sorsero in ogni parrocchia le scuole di religione e in ogni chiesa fu promosso il culto verso la SS.ma Eucaristia, fonte di vita e di purezza. Su queste premesse crebbero e si svilupparono i Circoli cattolici destinati ben presto a diventare solidi punti di formazione religiosa e civile. L’opera formativa della gioventù adriese fu particolarmente seguita da Mons. Filippo Pozzato, che si avvalse della collaborazione di ottimi presbiteri come don Guido Stocco, don Basilio Lodo, don Giovanni Toso, don Vittorio Casellato ed altri per sottrarre quanto più possibile i ragazzi alla propaganda vuota del regime, che anteponeva lo Stato a qualsiasi altro valore. Nelle adunanze plenarie del dopoguerra, i soci più anziani ricordavano ai giovani che non avevano conosciuto la dittatura, che prima della partecipazione alla S. Messa erano tenuti a partecipare alle parate domenicali organizzate nella piazza antistante la cattedrale. A questo rito pagano nessuno poteva sfuggire essendo le porte della chiesa presidiate dall’esterno per impedire le defezioni.

Chiesa, Ricreatorio e Teatro Ferrini erano i cardini sui quali poggiava l’azione formativa dei giovani cattolici. Ai più giovani, gli Aspiranti, veniva inculcata la regola “Preghiera, azione e sacrificio” integrata dall’impegno solenne di svolgere tutto in onore dell’Amico Gesù. “L’Aspirante vive di Gesù”, recitava infatti la regola. La medesima che impegnava i giovani a “donare il cuore a Maria”, per renderlo puro, amare il Papa, cioè la Chiesa di Cristo, ed amare la Patria, la casa di tutti. Sentimenti forti, rimasti scolpiti nelle coscienze di quei ragazzi che, in un mondo sconvolto da ideologie perverse, si fecero propugnatori di libertà e apostoli di pace.

La figura di Carlo Chiarato

Nato ad Adria il 21 dicembre 1909, fin da giovanissimo aveva militato nelle file del Circolo Giovanile “Beato Contardo Ferrini” della cattedrale. La sua fedele militanza è testimoniata dalla tessera di adesione per l’anno 1942, contrassegnata con il n. 62888, controfirmata dall’allora presidente diocesano dell’A.C. Uomini, Carlo Cibotto. Mons. Pietro Mazzocco, giunto ad Adria da Lendinara subito dopo la scomparsa dell’Arciprete Mons. Filippo Pozzato avvenuta nel 1942, ricordava Chiarato fedelissimo a tutti gli incontri del Circolo Giovanile, fervente nella preghiera, pieno di entusiasmo, impegnato nell’apostolato sociale. Quando ancora non si parlava di partiti, egli era fautore della partecipazione dei cattolici alla vita pubblica perché, sosteneva, essi dovevano portare nei vari livelli dello Stato la perenne testimonianza di Cristo. Carlo Chiarato, impiegato presso il Consorzio Agrario locale, viveva profondamente il cristianesimo, e per questo godeva stima e considerazione presso i giovani che frequentavano la parrocchia. Il suo carattere aperto, pronto al dialogo, lo rendeva amico di tutti. Non considerava mai nemico chi non la pensava come lui, ma vittima di ideologie non sane, dimostrando sempre per gli altri piena comprensione. La parola e l’esempio erano il binomio del suo apostolato. La sua coerenza ineccepibile suscitava stupore e ammirazione anche fuori dall’ambito parrocchiale.

Un giovane di questo stampo, educato alla scuola della vecchia anima popolare che indubbiamente aleggiava nei circoli cattolici durante il periodo della dittatura, non poteva non sentire forte il desiderio di contrastare le assurde teorie imposte con la coercizione, come le leggi razziali promulgate nel 1938. Carlo quindi divenne antifascista per una maturazione interna prima ancora di avere contatti con persone che si ripromettevano di combattere per la restaurazione della libertà.

Il fatto

Tutti possiamo immaginare l’euforia con la quale la stragrande maggioranza degli italiani accolse, il 25 luglio 1943, la notizia della caduta del fascismo. Era come una giornata di tiepido sole apparsa dopo un lungo e troppo rigido inverno protrattosi per vent’anni. Anche Adria, come molte altre località italiane, era stata raggiunta da questo nuovo clima di ottimismo e di speranza nel quale gli ideali repressi potevano nuovamente esprimersi in piena libertà. Questo nuovo stato di cose permise a molti di riallacciare vecchie amicizie raffreddate per timore di ritorsioni, e di dar vita a nuove alleanze fra persone provenienti da strade diverse ma che avevano l’unico obiettivo di superare la dittatura. Tutto questo fermento positivo però ebbe vita breve. L’ 8 settembre 1943 il Governo Badoglio, seguito alla caduta di Mussolini, firmò l’armistizio con gli Alleati provocando l’ira del dittatore tedesco che, senza incontrare alcuna resistenza da parte italiana, fece occupare dalle sue truppe la Penisola. Mentre fervevano i contatti tra le forze politiche, per volontà del fuherer venne costituito in fretta e furia l’effimero governo di Salò. Tra i primi atti, il nuovo governo fascista compilò lunghe liste di cittadini considerati pericolosi e che pertanto dovevano essere posti in condizione di non nuocere. Questa azione repressiva si estese anche alla Provincia di Rovigo nel cui ambito fu preso di mira l’attivo gruppo adriese.

Nei primi mesi di ottobre 1943 il Prefetto di Rovigo Federico Menna manifestava al Prefetto di Verona Cosmin, presente il conte De Larderel, le sue preoccupazioni per la situazione di Adria e gli mostrava una lista di antifascisti di cui doveva essere disposto l’arresto immediato. Il nobile fiorentino De Larderel, questore della polizia politica scelto dal ministro Buffarini Guidi, si offrì in quella occasione di avvicinare il prof. Mariano Coletti considerato il più pericoloso della lista. Il Prefetto di Rovigo accettò e diede ordine al comandante dei carabinieri di Adria di far accogliere il De Larderel sotto il falso nome di Ignazio Costa, presso l’Albergo “Leon Bianco” di Adria. Prese subito contatti con il prof. Coletti, presentandosi come esponente del movimento clandestino e dimostrando buona conoscenza delle parentele ed amicizie dello stesso. Con la medesima tattica avvicinò pure Carlo Chiarato, stretto collaboratore di Coletti, intessendo in breve con lui un rapporto di amicizia. Quando credette di aver conquistato la fiducia di entrambi fissò un appuntamento per la sera del 22 ottobre 1943, alle 21, in via Peschiera, non lontano dal Cimitero adriese. In quella occasione sarebbe avvenuto un importante scambio di informazioni e la consegna di documenti compromettenti. Il De Larderel inoltre, avrebbe comunicato ai cospiratori la lista delle persone sospette alle autorità repubblichine. L’ora e la scelta del luogo avevano fatto sorgere qualche dubbio e per questo i due segnalarono la cosa ad alcuni amici fidati. Per qualche istante Coletti ebbe il presentimento che quello sconosciuto fosse un falso patriota. Anche Chiarato doveva avere avuto il medesimo presentimento dal momento che la sera prima s’intrattenne a lungo con l’Assistente don Guido Stocco confidandosi e chiedendo consiglio. “Non andare Carlo, si tratta di un tranello” insistette il sacerdote, ma non venne ascoltato. Del resto in quei momenti bui bisognava pure fidarsi di qualcuno, credere nella buona fede degli altri. Bisognava rischiare, fidandosi di credenziali che potevano anche non essere autentiche. Con questi sentimenti Chiarato e Coletti si avviarono all’appuntamento mentre la sirena annunciava l’allarme aereo. Si capì poi che l’espediente servì per rendere ancor più deserta la scena del delitto. Approfittando del trambusto il sicario, accompagnato in macchina dai carabinieri, si fece scaricare sul posto circa mezz’ora prima del previsto. Tutto era pronto per l’agguato. Quando i convenuti se ne resero conto e tentarono la fuga era troppo tardi perché furono colpiti alle spalle. Chiarato cadde subito a terra, mentre il Coletti benché ferito, tentò di strappare l’arma all’aggressore ma un nuovo proiettile lo colpì alla mano. Come appare dagli atti processuali, i carabinieri, informati dell’agguato, erano sul posto e, mentre l’attentatore si dileguava, caricarono su una macchina i feriti dirigendosi verso l’ospedale. Durante il tragitto, Carlo chiese con insistenza di poter salutare gli amici riuniti presso l’Oratorio parrocchiale per il ritiro spirituale mensile. L’auto si fermò in via Cairoli ed i giovani presenti lo deposero sul tavolo della canonica dove il dott. Bruno Dalla Pasqua, suo coetaneo, non potè altro che constatare la gravità della ferita all’addome. Davanti agli amici che assistevano impotenti egli era sereno come al mattino, quando prese la Comunione dalle mani del suo assistente. Carlo era ormai agonizzante ma lucidissimo. Parlando a stento agli amici di Associazione addolorati ricordava i valori nei quali aveva creduto e per difendere i quali stava per morire. “Muoio per la libertà della nostra patria”, ripeteva. “Perdono a chi mi ha ferito ed offro la mia vita per la Chiesa e per la pace”. “Queste furono le ultime parole pronunciate mentre veniva caricato sull’ambulanza”, ci raccontava l’Arciprete Mons. Pietro Mazzocco che gli ha impartito l’unzione degli infermi. L’Assistente ecclesiastico don Guido lo guardò ancora una volta, rassicurandolo; “coraggio Carlo, ce la farai..”, ma Carlo scosse il capo e chiuse gli occhi. Morì all’alba del 23 ottobre tra il compianto generale.

Un breve trafiletto sul “Resto del Carlino” del 26 ottobre 1943, definì il duplice crimine opera di uno sconosciuto e tutto si chiuse lì. Ma nel processo svolto presso la Corte d’Assise di Rovigo tra il 2 e il 9 ottobre 1946 venne fuori tutta la verità e il nobile fiorentino fu condannato a 21 anni di reclusione. L’atto eroico fu ricordato per alcuni anni dopo la Liberazione. Nel ventesimo anniversario della scomparsa l’Amministrazione comunale eresse sul luogo del delitto una stele che viene onorata ancor oggi, durante le feste patriottiche.

Conclusione

Carlo Chiarato fu il primo martire per la libertà in Polesine ed uno dei primi in Italia. Mario Ferrari-Aggradi, collaboratore di Ezio Vanoni e più volte Ministro, nella lettera inviatami il 14 novembre 1986 in occasione della presentazione dell’opuscolo da me curato, scriveva che l’esempio di Chiarato “dimostra non solo quanto generoso sia stato il sacrificio di cattolici benemeriti, ma altresì come la Resistenza abbia rappresentato un ‘movimento ideale’ e un grande ‘moto di popolo’”. L’illustre economista, uomo della Resistenza, aveva ben presente quanto i cattolici avessero influito nella ripresa della vita democratica della Nazione. Per questo, personalità come Carlo Chiarato, Torquato Fraccon ed altri militanti dell’Azione Cattolica polesana di quel periodo non possono essere dimenticate. Nello sbandamento generale odierno provocato dallo smarrimento dei valori cristiani, essi rimangono monito perenne di fede vissuta fino alle conseguenze più estreme.

Testo a cura del rag. Aldo Rondina (ricercatore della storia diocesana), presentato durante la Festa Diocesana dell'Adesione dell'8 dicembre 2009.